Gli USA devono abbandonare le città irachene o affrontare uno scenario da incubo

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martedì  30 gennaio 2007 Gli USA debbono abbandonare le città irachene o affrontare uno scenario da incubo.

Questa, in estrema sintesi, è la raccomandazione centrale sostenuta da un recente studio reso pubblico dalla Brookings Institution di Washington, secondo quanto riferito da Rupert Cornwell, inviato nella capitale statunitense del prestigioso quotidiano britannico The Independent.

Nei prossimi mesi gli Stati Uniti potrebbero trovarsi ad affrontare un'esplosione della guerra civile irachena di dimensioni senza precedenti che provocherà centinaia di migliaia di vittime, causerà milioni di profughi e potrebbe innescare una vera e propria catastrofe regionale, generando una crisi dei rifornimenti di petrolio oltre a portare in primo piano un confronto diretto tra Washington e Teheran.

Questo tremendo scenario è basato sull'attuale contingenza e sull'assunzione che la recente decisione del Presidente George W. Bush di inviare altri 21.000 militari in Iraq non sarà in grado di stabilizzare il Paese arabo e dà per scontato che gli Stati Uniti non possano semplicemente abbandonare a sé stesso il crescente disastro scatenato dall'invasione lanciata nel 2003. Anche in tal caso - secondo Kenneth Pollack, uno degli studiosi autori dello studio del Brookings - e pure tentando di contenere le violenze, l'Iraq sarà comunque consegnato ad un "terribile fato. Anche se la strategia americana funzionasse", gli Stati Uniti avrebbero comunque "fallito nel fornire agli iracheni il futuro migliore che gli era stato promesso".

L'abbandono delle città da parte delle forze armate USA sarebbe la "meno cattiva delle opzioni" a disposizione al fine di proteggere i propri interessi nazionali nel caso dello scoppio di una guerra civile generalizzata. E questa sarebbe l'unica decisione razionale da adottare, per quanto possa apparire orribile, mentre l'America si concentra nel rimettere a fuoco i propri sforzi dal prevenire al semplice contenere gli effetti della guerra civile irachena.

Queste sono le fosche previsioni ed opinioni sostenute dallo studio della Brookings, la quale ha tiene conto, nel compilarlo, delle lezioni delle guerre civili libanese, della ex-Jugoslavia, del Congo e dell'Afghanistan. Al terribile disastro annunciato in Iraq si affiancano le non meno gravi conseguenze che esso potrebbe scatenare nella regione, con una crescita dei movimenti secessionisti e del terrorismo nei Paesi limitrofi, e un crescente intervento in Iraq da parte di Iran, Turchia ed Arabia Saudita.

Per poter sperare di imporre la fine della guerra civile in Iraq, sostiene lo studio, sarebbero necessari almeno 450.000 soldati, ossia tre volte il numero dei militari USA attualmente impegnati in Iraq, anche considerando l'ultimo aumento di 21.000 uomini appena inviati nell'inferno mesopotamico.

A confermare quanto la situazione stia totalmente sfuggendo di mano agli Stati Uniti e la totale incapacità del governo di Al Maliqi di esercitare il controllo del Paese, giunge la notizia, diffusa da Al Jazeera, di una sessione segreta del parlamento turco in corso nella quale si discute l'opzione di invadere con proprie truppe il Kurdistan iracheno. I turchi lamentano infatti - malgrado le loro ripetute sollecitazioni in tal senso - una completa inazione sul fronte del controllo delle attività terroristiche condotte nel proprio territorio a partire da basi irachene del PKK (il Partito dei lavoratori Curdi, secessionista), sia da parte degli USA, sia da parte di quelle stesse istituzioni irachene che avevano neanche un mese fa tentato di far passare l'orribile esecuzione di Saddam Hussein non solo come un atto di giustizia, ma come un improbabile catalizzatore di unità nazionale.

Sullo sfondo dell'analisi e delle previsioni appare ovunque l'ombra lunga dell'impegno iraniano. Da una accurata simulazione condotta dal Saban Centre for Middle East Policy del Brookings è emerso come all'aggravarsi della guerra civile irachena è corrisposto un progressivo aumento della tensione tra gli USA e l'Iran, e la diminuzione inesorabile della capacità americana di esercitare pressione sugli iraniani, rendendo così sempre meno ambiguo il ruolo della Persia come quello del maggiore avversario degli Stati Uniti nella regione.

Tale evoluzione è in effetti già in corso. Lo studio Brookings è apparso significativamente nello stesso giorno nel quale l'ambasciatore iraniano in Iraq - rimasto sordo ad ogni tentativo di intervista sin dallo scorso 21 dicembre 2006, quando gli Stati Uniti assaltarono una missione diplomatica nel nord dell'Iraq, catturandovi quattro diplomatici iraniani - ha dichiarato al New York Times che il suo Paese intende espandere la propria influenza ed i propri investimenti in Iraq. Nel frattempo i comandanti militari statunitensi sul campo sostengono che sarebbero ormai migliaia i consiglieri militari iraniani impegnati nell'addestramento e nella fornitura di armi alle milizie sciite in Iraq.

Ciò nonostante Brookings fa appello alla creazione di un "gruppo regionale" che tenti di contenere la guerra civile irachena, riproponendo in sostanza la raccomandazione espressa il 6 dicembre 2006 anche dalla Commissione presieduta (lo Iraq Study Group) dall'ex Segretario di Stato James Baker di un coinvolgimento diplomatico di Siria ed Iran da parte degli Stati Uniti che l'amministrazione Bush ha già fermamente scartato. L'unica altra alternativa suggerita nel rapporto è quella di tracciare delle chiare "linee rosse" che, se sorpassate, condurrebbero ad un attacco militare statunitense contro l'Iran.

E questa sembra l'opzione preferita dal Presidente americano, il quale, intervistato il 29 gennaio 2006 dalla National Public Radio, ha avvertito: "se l'Iran accresce le sue azioni militari in Iraq ai danni delle nostre truppe o degli innocenti civili iracheni, risponderemo con fermezza".

Fonti[modifica]