Ermanno "Gomma" Guarneri: intervista sotto l'albero per Wiki@Home
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mercoledì 30 dicembre 2009
Wiki@Home saluta i suoi lettori, sul finire di questo 2009, con un pezzo a sorpresa. A fine ottobre abbiamo infatti intercettato a Milano Ermanno "Gomma" Guarneri, anima della rivista Decoder e tra i fondatori della casa editrice Shake. Approfittando di una sua email a OTRS in cui chiedeva informazioni, lo abbiamo agganciato per una chiacchierata su di lui, sulla tecnologia, su Internet e le sue prospettive, sul punk... Scoprendo, a latere, che è un fan di Wikipedia e che fa parte della nutrita schiera di anonimi che correggono gli errori. E sviscerando le sue preoccupazioni per il disinteresse politico per la Rete, vista solo come una minaccia da tenere a bada con le cattive.
W@H: Raccontaci chi è "Gomma", del suo passato musicale ed editoriale, dei progetti che porta avanti attualmente, dei suoi piani futuri.
- Ermanno "Gomma" Guarneri: La musica e l'informazione sono state tra gli interessi paralleli al contenitore delle controculture, che è stato e rimane uno degli interessi importanti della mia vita. Ho sempre avuto la passione per le riviste di tipo politico, la musica e l'editoria alternativa. Ho cominciato a interessarmene da giovane, intorno ai 15-16 anni, cioè alla fine degli anni ’70 in Italia, quando c’era un interesse più collettivo intorno a certe tematiche e la produzione era più forte, almeno quella cartacea. Da allora raccolgo materiale di “controinformazione”, così si chiamava, di tipo politico, sociale e soprattutto culturale. Via via poi con l’avvento del punk (fine anni ’70 – inizio anni ’80) ho iniziato ad abbandonare la politica più da “militante” (per quanto poco io abbia fatto il militante) per dedicarmi alle controculture e all’informazione a queste collegate. C’è una differenza: il militante politico utilizza l’informazione e la comunicazione per obiettivi specifici, quali convincere il prossimo, farti andare alla manifestazione, farti capire che l’idea di qualcun altro è sbagliata… Invece nelle controculture l’informazione e la comunicazione possono vivere – e molto spesso succede così – di vita propria, essere più fini a sé stesse; infatti c’è anche una ricerca estetica e di stile, sul modo di comunicare, che diventa complessivo e coerente con la musica di chi lo mette in atto. Ad esempio gli hippy, che avevano un determinato tipo di comunicazione cartacea, di espressione grafica, di musica, di vestiario… Idem per il punk: un modo di vestirsi, uno di suonare, uno di fare comunicazione scritta, che era totalmente autoprodotta e fotocopiata. C’erano certamente anche i contenuti, ma ad essere forte era proprio lo stile, cioè un modo di comunicare coerente con quello che si era quotidianamente, legato al contesto della controcultura. In questi ambiti non si hanno obiettivi a lungo termine, tipo la conquista della società socialista, comunista o analoghe, ma si risponde ad esigenze più concrete per cui le prospettive anche sociali e politiche sono sul breve e brevissimo periodo. Di qui anche la necessità, non avendo dei luoghi, dell’occupazione degli spazi, che poi è diventata anche una pratica politica, ma ai tempi del punk “storico”, mancando fisicamente degli spazi dove incontrarsi e far musica, si occupava e basta, senza troppe elaborazioni: era un’esigenza esistenziale. A distanza di anni devo dire che questa modalità di vedere le cose è rimasta in me, cioè non farla troppo lunga con le teorizzazioni e le concettualizzazioni, anche se sono una persona che per ragioni professionali, in tutta la sua vita, è sempre stata all’interno del mondo dell’editoria e della costruzione del pensiero. Cerco all’atto pratico di costruire qualcosa di concreto. Infatti, intorno al 1987, per me i tempi erano maturi per concretizzare certi ragionamenti teorici insieme ad un gruppo di coetanei, compagni di avventura, in primo luogo con la rivista Decoder, che è stata importante perché prima, in Italia, a porre con forza il problema della gestione dal basso dell’informazione in maniera non ideologica, con delle finalità pratiche, confrontandosi con i contesti esteri e soprattutto mettendo in gioco le nuove tecnologie. Allora parlare di reti telematiche, fondamentalmente di BBS, era una cosa marziana. Questo perché da una parte c’erano gli “smanettoni”, i pionieri della Rete in Italia, che da tecnici e appassionati di tecnologia quali erano, erano focalizzati sui loro interessi e agivano con un atteggiamento centralizzante; nel senso che i sysop, per quanto le attività portate avanti in Rete fossero di tipo social, accadeva spesso che decidessero con molta “brutalità” gli argomenti di cui parlare o non parlare, decidendo sull’accesso alla macchina, e in pratica c’era un grosso filtro. Dall’altra parte invece vi era un’intera società che della nascita della Rete non era minimamente consapevole, eppure stava succedendo qualcosa di davvero importante. Noi della rivista Decoder effettivamente vedevamo concretizzato subito quello che per noi era una sorta di obiettivo di democrazia sociale, cioè il fatto che tutti potessero comunicare, e da lì è iniziato tutto un percorso. Oltre a Decoder infatti alla fine degli anni ’80 ho fondato insieme ad altri la casa editrice Shake che si occupava della produzione editoriale delle nostre idee e convinzioni e permetteva che anche in Italia fosse possibile un progetto editoriale che proponesse le controculture e che si potesse fare un dibattito serrato sulle tecnologie. In quel momento per fortuna siamo “incappati” nel cyberpunk, dai grandi del cyberpunk internazionale, William Gibson, Bruce Sterling, John Shirley, Pat Cadigan (dal punto di vista letterario) fino a tutto il contesto tecnologico che dalla letteratura è stato galvanizzato... sto parlando di nomi grossi, Jaron Lanier, pioniere e coniatore dell’espressione “realtà virtuale”; era il 1991, eravamo poco più che ragazzi, eppure siamo riusciti ad incontrare una personalità del calibro di Marvin Minsky! Abbiamo anche avuto dei riconoscimenti internazionali, perché eravamo i primi in Italia a esserci occupati di queste cose. Noi volevamo portare queste tematiche alla gente con ogni mezzo, fondamentalmente tramite gli incontri nei centri sociali. Stavamo contribuendo alla nascita di una scena nazionale di riflessione, pratica e diffusione di nuovi mezzi e nuove tecnologie, con dibattiti ecc. Nel 1994 ho iniziato con Raf Valvola la direzione della collana InterZone, la prima a occuparsi a livello alto sulle nuove tecnologie, con una serie di autori come Derrick de Kerckhove, J.C. Herz, Donna Haraway, Pierre Lévy… Nel 1999 ho iniziato a lavorare su Internet per Feltrinelli, prima con l’e-commerce Zivago, poi sul sito dell'editore come responsabile dei contenuti internet e multimedia. A questo punto della mia vita, sono nella posizione in cui la sperimentazione è d’obbligo.
W@H: E della Rete di oggi cosa ti piace? Cosa pensi che la minacci al giorno d'oggi e quali sono invece le sfide da affrontare?
- EG: Nutro un forte interesse personale sui social network, sia per lavoro, sia perché sono laureato in Sociologia della Comunicazione, sia perché si tratta di una dinamica in cui mi ritrovo. Ho un mio sito, gomma.tv, costruito "consapevolmente" e con una forte esposizione personale, non schermandomi dietro a Facebook e nemmeno a siti collettivi alternativi, perché credo sia il momento del venire a galla senza paura. Dentro gomma.tv tento di pubblicare tutto il mio archivio sulle controculture per dare un contributo alla loro storia, che adesso è spesso falsata dalla rilettura della stessa, per via del passare del tempo e dal fatto che la sua radicalità porti i suoi protagonisti, una volta terminata l’esperienza, a non parlarne più. Molte di queste esperienze infatti finiscono tragicamente; i punk vivevano in maniera dura, spesso sul baratro del nichilismo, così come i veri raver, gente che ha vissuto in furgone per anni, mettendo in gioco proprio il loro stesso corpo. Se non se ne parla, però, non si lasciano nemmeno le tracce positive, ciò che di buono può essere insegnato, come le modalità quotidiane di vita, di rapportarsi decentemente agli altri, le relazioni esistenziali, che spesso sono migliori di quelle "borghesi". Mettere il materiale online inoltre non è solo condivisione, ma lo preserva anche dalla distruzione, dalla dispersione fisica dei supporti. Vorrei non essere uno dei pochi che in Italia fa questo tipo di percorso. Lo strumento che preferisco è il podcast, perché ritengo l’audio più versatile per il web.
- Quanto alla Rete: il dibattito politico autentico su Internet stenta ancora a decollare; nonostante i proclami e le azioni di pochi che portano avanti determinate istanze, la situazione resta "non regolata" tramite le leggi. Prima o poi qualcuno deve avere il coraggio di sancire, anche costituzionalmente, la libertà di esprimerci in Rete liberamente, per come ci sentiamo! Ciò al momento è consentito solo alla carta stampata, alle testate registrate (Art. 21 della Costituzione), ma gli altri media sono esclusi. Anche per questo io ho deciso di fare la mia avventura personale, esponendomi con nome e cognome, dicendo quel che voglio ma pagando anche i diritti per il materiale coperto da copyright che uso, come la musica; questo per evitare problemi, anche se si tratta di musica di persone che conosco e di cui ho le liberatorie, trattandosi di artisti indipendenti. Volevo insomma qualcosa che fosse il più possibile inattaccabile, perché ho già avuto noie legali, ai tempi delle controculture. Ai tempi di Decoder infatti eravamo oggetto di grosse pressioni: finimmo citati in prima pagina sul Corriere della Sera e su altri quotidiani nazionali, una volta da Andreotti, descritti dai rapporti dei servizi segreti come un gruppo pericoloso per quello che facevamo e propagandavamo, tra cui la necessità di accedere alle nuove forme telematiche e di ridiscutere di copyright. Da allora sono convinto che se cerchi di cambiare l'esistente ma se non sei connotato politicamente all’interno dell’arco costituzionale, e non hai qualcuno che ti protegge, cercano di farti abbassare la testa, in ogni modo.
- Ho lottato per anni perché certe idee si diffondessero, ma da parte della politica istituzionale non c'è mai stata nessuna risposta, se non reazioni contrariate. Delle volte penso di aver avuto, anche se qualcuno può prendersela per questo, più libertà di esprimermi su alcune cose nel contesto del mercato che in quello politico. Perché ciò di cui stiamo parlando alla fine non è una rivoluzione ma un’innovazione, qualcosa che porta una ventata di novità nella società (anche Wikipedia da un certo punto di vista rientra in questo). Il sistema politico, a sua volta, dovrebbe reagire in termini positivi, accogliere la novità. Questo è anche ciò che dovrebbe differenziare la destra e la sinistra; una persona di destra è conservatrice, una di sinistra progressista, per questo io mi definisco tale. Credo che questi concetti dovrebbero esser fatti propri dalla sinistra, da qui il mio grande disappunto, che sta diventando pesante e sfocia nel totale disinteresse per la politica praticata che non fa sue queste istanze (cosa che ho sperato per 20 anni) e ciò mi fa paura. Non so più cosa pensare, 20 anni fa magari non erano competenti, ma adesso come fanno a non sapere quello che sta succedendo nel campo delle tecnologie e di Internet? Temono questa cosa per paura di perdere la loro influenza e il loro potere? Non hanno capito e non sono interessati? Non hanno avuto la possibilità di far breccia, poveretti? Il mercato, invece, è più interessato perché si deve adeguare, innovare. (Questa cosa mi intriga anche professionalmente, di riuscire a creare delle relazioni tra spinte sociali e ciò che mi trovo a dover affrontare per lavoro.) Prendiamo ad esempio il file sharing: il mercato ad un certo punto si è mosso, perché c’è stato qualcuno che ha acquistato la prima piattaforma p2p, Napster, dal creatore. Un imprenditore quindi ha detto: “Questa cosa la temo, sì, ma la affronto”. Mi intriga di più vedere questo che i politici, che invece non sono capaci di gestire tutto ciò, e sono attendisti! Il mio privato e la mia professione, è evidente, a volte si sovrappongono.
W@H: Il progetto Wiki@Home lo scorso anno ha intervistato Codogno, Bragadini, Quintarelli, ognuno in un qualche modo pioniere del Web in Italia. Anche tu sei stato un protagonista di quel periodo, vorremmo sentire un po' di ricordi (e rimpianti?) di quella Rete in cui si poteva quasi dire di conoscersi tutti.
- EG: Credo che in Italia il livello del dibattito relativo a Internet sia basso quanto la consapevolezza tecnologica; siamo indietro di anni. Di base l’informatica non viene insegnata nelle scuole. 20 anni fa presi a frequentare quelli di Chaos Computer Club, il più grosso e importante gruppo di hacker in Europa. Loro hanno sempre avuto grossi rapporti istituzionali, checché se ne possa pensare. Sono sempre stati molto etici, rigidi, teutonici ma anche molto pratici: da subito hanno avuto rapporti con le compagnie telefoniche stipulando accordi non in termini ricattatori (“Ti tiro giù la centrale telefonica!”), ma mettendosi d’accordo per realizzare dei progetti che sono poi andati in porto, pur mantenendo la loro posizione critica, cosa che da noi è fantascienza. Quando li ho conosciuti, alla fine degli anni ’80, in Italia il PC lo possedeva una porzione infinitesimale di persone: al Chaos Computer Congress di Amburgo c’erano ragazzi di 15 anni, ma anche di 12-13, che sapevano programmare benissimo perché lo avevano imparato a scuola, alle medie inferiori. Da noi nel campo è preparato l’autodidatta che intraprende un percorso per sua curiosità e passione personale, negli ultimi anni magari agevolato da qualche wi-fi pubblica o cose del genere. L’università devo dire che oggi è migliorata, dalle facoltà escono persone più preparate sull'informatica rispetto a qualche anno fa, ma tendenzialmente resta tutto lavoro individuale. Ma perché deve essere così, tutto sempre legato a questa dinamica dell’autocostruirsi? È assurdo! A tutti devono essere date le stesse possibilità di partenza, poi ognuno chiaramente svilupperà le proprie capacità, ma ognuno deve sapere che nel PC ci sono degli strumenti creativi per fare delle cose, o per permettere ad altri di farne (ad es., suonare o sviluppare dei software con cui terzi possano farlo). Dubito che questa cosa verrà risolta. Torno così al discorso dei problemi relativi alla Rete. È una questione non solo di informatica, ma anche di informazione, di cultura. Leggevo di questa nuova statistica Demos-Coop secondo la quale il 38% dei giovani italiani usa Internet per informarsi e il 40% la radio. Non ha più senso dunque che ci siano problemi di digital divide. A tal proposito ho scritto un articolo in cui racconto la situazione del paesino della Liguria in cui vado in vacanza, dove finalmente è arrivata l’ADSL a inizio 2008. Secondo me la prima cosa cui un’amministrazione locale, di sinistra, deve pensare, è fare una rete wi-fi (arrivano anche a 10 mega, possono essere gestite da cooperative indipendenti) per la distribuzione dell’informazione garantendo così l’accesso a tutti. Invece come in questo paesello danno l’esclusiva a Telecom che fornisce 640k reali da suddividere in tutto il paese. Così ognuno di quei 7-8 ragazzini che ci vivono deve sperare che i suoi amici non si colleghino perché altrimenti gli sottraggono banda. Nel 2009 è incredibile! Ma come cavolo fanno a studiare senza Internet? Se li paragoni ai coetanei che abitano in una grande città, fornita da queste bande larghe in cui passa anche la televisione… ma hanno meno diritti? Non oso pensare cosa accade al Sud. Queste sono decisioni da prendere a livello politico, io sono sconcertato da questo. Il futuro è fosco, se continuano così le cose, avrà accesso chi ha i soldi. L’accesso a Internet secondo me dovrebbe essere garantito per tutti, e a larga banda. Fatemelo pagare con le tasse, ripartitelo sui redditi, non mi importa… Mi sembrano delle cose così semplici, ovvie, ma non si va avanti perché comandano le telecom, bloccano tutto. Quindi sarebbe bello chiederlo ad un politico, il perché di questa situazione.
W@H: Cambiando adesso argomento, alla luce della tua storia, vorremmo la tua autorevole opinione sulla scena punk e hardcore attuale e sul ritorno nella scena mainstream del punk in Italia e all'estero con gruppi commerciali.
- EG: Secondo me in Italia il punk è "morto" verso la metà degli anni '80 e l'hardcore poco dopo. I primi tempi del punk andavi in giro rischiando di essere menato per come eri vestito, e questo ovunque, a Milano, Bari, Pisa, Torino, ovunque, da fascisti, comunisti, polizia ecc.; ti vedevano con la cresta e ti menavano, era più forte di loro. Un ragazzo con la cresta che cammina per strada adesso non lo nota più nessuno. Intendiamoci però su cosa significa fine di un movimento. Adesso non ci sono tanti punk come alla fine degli ’80, o così incisivi, per parlare di qualità invece che di quantità, ma una scena musicale non si può negare che ci sia. Secondo me questo tipo di esperienze è molto legato alle generazioni, perché sono connesse al tempo del non lavoro, lo stile controculturale è incompatibile quando si entra nel ciclo della produzione. Come per mod, rocker, hippy ecc. c’è stata una fascia giovanile che ha intrapreso un certo tipo di percorso, che poi a un certo punto ha mollato. Quando si allenta la spinta generazionale dei creatori, a volte c’è un passaggio di testimone, come può essere successo per il punk, ma siccome è tutto basato sull’esperienza vissuta, tante cose non si riesce a trasmetterle. I codici, quelli puoi trasmetterli con la comunicazione (ad es. fanzine), ma il vissuto giorno per giorno non puoi trasmetterlo a un ragazzo 25 anni dopo, deve viverlo lui per conto proprio nel suo tempo. Credo quindi sarebbe meglio che i "punk" di oggi si chiamassero in un altro modo, perché quella di oggi è la loro storia. Così non dovrebbero fare i conti con lacci e lacciuoli di un passato ingombrante. Lo dico perché mi hanno scritto incazzati alcuni ragazzi di oggi che seguono gomma.tv, e quando succedevano le cose descritte dai miei file audio, dalle foto, dai documenti, loro non erano ancora nati. Questi ragazzi mi hanno scritto delle email arrabbiatissime dicendo che io negavo la possibilità di fare "adesso" l’esperienza del punk. Io fino a poco tempo fa pensavo veramente che quell’atmosfera fosse morta e sepolta, ma perché l’avevo vista finire, scemando poco a poco, perdendo senso, perché noi tutti sentivamo che stavamo cambiando. A metà degli anni Ottanta ti rendevi conto che tutto stava finendo quando vedevi tanti negozi (al di là del negozietto tenuto dal tipo che ci tiene, che ci fa sì i soldi ma che è comunque coinvolto nel movimento) che proponevano l’abbigliamento nero, le borchie, i colori per capelli… Queste cose si chiamano underground perché devono essere sotterranee… Inoltre ai miei tempi era una cosa in cui ti sentivi autentico, perché nessuno, dai compagni di scuola ai genitori, ti capiva... ti sentivi innovatore, ma se il primo scemo alla TV fa la tua parodia, le cose cambiano e cambi anche tu. Comunque dato che su gomma.tv non racconto cose per affermare che l’unica esperienza punk possibile sia stata quella della mia generazione, dopo le email, con l'aiuto di Mungo (che ha fatto parte di un gruppo hardcore importante negli anni ’80, i Declino) ho deciso di dar visibilità ai nuovi gruppi e abbiamo preso a intervistarli per fare venire fuori cos’è l'hardcore oggi. Abbiamo fatto decine di interviste che abbiamo pubblicato, e oltre ad avere imparato un sacco di cose interessanti, alla fine ritengo che il loro hardcore sia una cosa diversa, non migliore o peggiore, ma differente, questo sì. Comunque anche i giovani punk o hardcore di oggi sono "belli incazzosi" e si sono trovati una loro strada e questa è una cosa interessante.
W@H: Etichette discografiche punk (ma non solo): major o etichette indipendenti? Chi avrà vita più lunga?
- EG: Per riallacciarmi a quanto dicevo prima, anche l’autoproduzione di allora non era paragonabile all’attuale. Ai tempi era l’unica possibilità, non una scelta, come occupare gli spazi, certe cose allora erano incompatibili con il mercato; adesso non è più così. Quello stilema musicale lì ormai è permeato, una dinamica che dimostra ancora che le controculture generano innovazione. Prendi i Red Hot Chili Peppers, sono l’esito di hardcore e di hip hop bianco, e li ascoltano veramente tutti, sono una roba di massa. Il punk anni 80 non poteva essere assolutamente di massa; un genere che dichiarava “Siamo rumore, non musica”... la major gli rideva in faccia o scappava per la paura. Adesso tu potresti fare benissimo una cosa punk, di stilema punk, con contenuti punk, e magari avrebbe più senso darla a una major, perché ti ascolterebbe più gente. Tanto per come è messa adesso la musica, le major non vedrebbero l’ora, perché non vendono niente… Stilisticamente non è più una cosa così radicale, perché non può più esserlo. Il bebop degli anni ’30 ascoltato adesso non ha la stessa forza dirompente che aveva allora. Il free jazz degli anni ’60, è usato nei film adesso, e tu hai imparato a digerirlo, com’è giusto che sia. Probabilmente vinceranno le major, il mercato è sempre più concentrato, i negozi piccoli chiudono. Se Internet fosse esistito ai nostri tempi avremmo messo tutto online, sicuro, sarebbe stata l’alternativa più intelligente. Dei soldi non ce ne importava, eravamo sempre in bolletta, ci interessava essere ascoltati e avere le reti; magari avessimo avuto l’mp3, non ci saremmo neanche sbattuti a fare i vinili… Eppure i gruppi di adesso i cd li fanno ancora, anche se a me sembra strano, e li vendono direttamente. Questa è una cosa positiva, ha molto senso, vuol dire che l'autoproduzione non è finita. Forse sarebbe bene utilizzare certi contesti, come le reti p2p, per le robe alternative, per condividere file di cui curi la qualità, reti cui poi approda gente interessata a fare progetti editoriali, musicali, ecc. L’uso del p2p renderebbe tutto più performante. Non mi interessa il download indiscriminato, che ti riempie il pc di roba che poi non ascolterai mai. Un altro conto invece è “fare l’assaggio” e poi scegliere, magari fruendone a prezzo basso.
W@H: Cosa pensi delle licenze libere applicate alla musica? È una strada percorribile nel lungo periodo?
- EG: A chi sta nelle controculture non interessa niente della licenza; secondo me le Creative Commons sono una foglia di fico per un problema più grosso, utile in certi contesti per regolare alcune cose, ma non ne sono un fan sfegatato; ho seguito bene il dibattito anche per quanto riguarda i musicisti ma non mi pare che la logica di “alcuni diritti riservati” abbia cambiato di molto la situazione. All’interno del contesto delle controculture ti interessa solo suonare, far casino, molto meno invece pubblicare, avere contratti ecc. Non sono persone che verranno a farti storie se scarichi la loro musica (anche se io per il mio sito chiedo i permessi per pubblicarla). Capisco i progetti come Wikipedia che hanno bisogno di uniformità contrattuale, quindi scelgono un’unica licenza, ma nella vita reale è un’altra cosa, c'è più flessibilità.
Collegamenti esterni
[modifica]- Il suo sito
- The bit(ter) end, ovvero come buttare il silicio al vento, di E. Guarneri, 2008
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[modifica]- Categoria:WikiAtHome
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